Il messaggio è inequivocabile e, nonostante tutte le smentite di rito, è chiaro che la macchina zeppa di armi e esplosivo, fatta ritrovare a Reggio Calabria, è stato il buongiorno che la ’ndrangheta ha voluto dare al Presidente della Repubblica. Non un attentato, evidentemente, ma un segnale di aperta intimidazione verso lo Stato. Concordano su ciò fonti investigative, giudiziarie e di intelligence: la criminalità organizzata intende ribadire la sua stretta sulla Calabria e vuole dire che mai gli uomini delle cosche faranno un passo indietro. Un’analisi, questa, che mette insieme l’attentato alla procura generale di Reggio Calabria con i fatti di Rosarno, e il colpo di scena di ieri.
Per giungere a queste conclusioni è sufficiente mettere in fila i fatti come fa un’autorevole fonte investigativa, che però chiede di restare anonima: «La macchina era stata rubata ieri mattina, ma non è stata utilizzata per nessuna azione criminale. Nonostante i controlli serrati, qualche ora dopo è stata abbandonata dalle parti dell’aeroporto, su una stradina laterale e non sul percorso del Capo dello Stato. Dentro c’era il kit del perfetto estorsore: liquido incendiario, due bombe rudimentali, diverse armi, alcuni passamontagna. Una telefonata anonima ai carabinieri ha fatto sì che l’auto venisse scoperta proprio quando il Presidente Napolitano era dentro l’aeroporto ed era in procinto di ripartire».
Quindi: l’auto con l’esplosivo dentro è un messaggio delle ‘ndrine che sentono come intollerabile l’accresciuta presenza dello Stato e ancor di più maldigeriscono che le visite istituzionali - ieri Giorgio Napolitano, giovedì prossimo i ministri con Silvio Berlusconi - portano maggior controllo di polizia e carabinieri. Spiegano ancora altre fonti investigative del fronte antimafia: «E’ una sorta di crisi di nervi della ’ndrangheta che, comunque, anche se non ha ancora deciso di alzare il tiro, manda un messaggio: non intendiamo fermarci di fronte all’azione di contrasto».
Gli investigatori precisano seccamente, però, che non si tratta neppure lontanamente di attentato. E in effetti l’esplosivo non era sul tragitto del Presidente e per di più era senza innesco, perciò in nessun caso sarebbe potuto deflagrare. Ha quindi ben motivo di dire il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, uno dei magistrati più esperti nella lotta contro la ’ndrangheta: «Non è assolutamente un segnale lanciato alle istituzioni. Se qualcuno avesse voluto lanciare un segnale alle istituzioni, l’automobile sarebbe stata lasciata davanti ad un ufficio pubblico o giudiziario. In realtà quelli nell’auto erano soltanto gli “attrezzi” per attuare un’intimidazione, presumibilmente collegata ad un tentativo di estorsione. Nulla di più». Lo stesso sostengono i carabinieri. E ieri sono state convulse le indagini per cercare di dare un nome e un cognome al gruppo di malavitosi che si è disfatto della macchina. «Qualunque sia la verità che si cela dietro il rinvenimento dell’auto-arsenale - taglia corto il procuratore capo, Giuseppe Pignatone - noi magistrati continueremo a fare il nostro lavoro».
Troppo facile, però, archiviare l’episodio come una casualità. Dice il segretario del Pri, Francesco Nucara: «L’automobile ritrovata contenente armi ed esplosivo è il segnale che la ’ndrangheta dà allo Stato della sua presenza sul territorio. Davanti a questo atto dimostrativo lo Stato deve assicurare una guerra totale alla criminalità organizzata». Il senatore Luigi Li Gotti, Idv, non esclude nessuna possibilità: «La ’ndrangheta - dice - potrebbe aver voluto cogliere l’occasione della visita per sottolineare la presenza dell’organizzazione sul territorio, posizionando quell’auto allo scopo di ottenere la massima risonanza mediatica e ben sapendo che non poteva passare inosservata. Un’occasione mediatica, insomma, sfruttata fino in fondo». Rocco Buttiglione, Udc, fa un passo in avanti: « La ’ndrangheta sfida lo Stato a una lotta alla morte e cerca di intimidire il Presidente, le istituzioni e gli italiani onesti. La nostra ferma e piena solidarietà vada al Presidente della Repubblica».
Fonte: Lastampa.it
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